Il Pd dopo il referendum

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In molti – ovviamente la cosa non mi lascia indifferente – mi chiedono cosa penso della attuale situazione politica, del futuro dell’Italia e del ruolo del PD dopo domenica scorsa. Nel rispetto degli organismi politici locali e regionali di cui sono componente deputati al confronto e alla definizione degli indirizzi collettivi, mi permetto di abbozzare qualche riflessione.
– è il Capo dello Stato, con le dimissioni del premier, il titolare delle sorti della legislatura. A lui il compito di verificare, consultando le forze politiche, la sussistenza delle condizioni per non procedere allo scioglimento delle camere. Questa premessa è necessaria e assorbe quanto segue.
– condivido l’impostazione comunicata stasera da Matteo Renzi alla direzione nazionale: la legislatura può sopravvivere solo in un quadro largo di condivisione delle responsabilità. L’ipotesi di un nuovo governo di transizione che poggi, nella sostanza, sulle spalle del solo PD non è praticabile nel quadro palesatosi dopo la consultazione referendaria;
– allo stesso tempo risulta complicato un ritorno veloce alle urne in assenza di una nuova legge elettorale per entrambe le camere che assicuri rappresentatività e governabilità. Probabilmente domenica è morto il maggioritario, e tuttavia si dovrebbe evitare che ciò consegni il Paese a una nuova inconcludente stagione di instabili intese, maggioranze non coese, equilibrismi tattici e così via. Ciò che non serve all’Italia è la rimessa in scena del volto meno nobile della prima Repubblica.
– il rinvio a fine gennaio della pronuncia della Consulta sull’Italicum fissa un termine che può essere anticipato soltanto con un accordo solido e ampio su una nuova legge elettorale per Camera e Senato. Ce ne sono le condizioni? Se non ci sono il voto immediato mi pare prepari un salto strutturale nell’incertezza.
– ad ogni buon conto un grande partito come il PD non può temere nessuna delle opzioni in campo, compreso il voto. 
Qui mi fermo, almeno, per la parte istituzionale.

Invece, sul PD.
– il referendum consegna un dato che descrive l’ampiezza di un’area riformista che certamente non è interamente ascrivibile al PD, ma che ha una consistenza – che appare positivamente strutturale – senza precedenti nel Paese. Per area riformista intendo un blocco non ideologico né populista che sceglie la vocazione maggioritaria e l’orizzonte del governo come opzione primaria.
– il risultato del referendum non va dunque sottovalutato, ma non troverei utile sopravvalutarlo né sul piano nazionale né su quello locale per piegarlo a dinamiche interne o edulcorare analisi puntuali sull’appeal del partito e la sua effettiva connessione con la società. Dove i problemi esistono vanno affrontati e non ammucchiati sotto il tappeto.
– il dato referendario non rappresenta il consenso misurabile del PD, vale la pena ricordarlo; ad esso vanno sottratti i Sì assicurati da elettori non PD che non pensano di votarlo in futuro, e aggiunti quelli di elettori tradizionali ma anche potenziali del PD che nell’occasione hanno optato per non cambiare la Costituzione. Il rapporto con le persone che hanno espresso un No in buona fede deve essere recuperato con disponibilità e capacità dialogica.
– il tema oggi è coinvolgere e mobilitare su un progetto di società e di governo i tanti fra i giovani e i ceti popolari che al PD sembrano aver voltato le spalle, irrobustendo e dando così corpo all’area riformista che già si è palesata.
– per questo serve un partito con un profilo, una visione, un’idea di comunità convincente e assertiva, rispondente ai bisogni e alle ambizioni, al disagio e alle speranze.
– serve dunque un congresso che delinei il profilo del Partito Democratico, la sua base sociale di riferimento, le alleanze e i riferimenti culturali, la sua matrice identitaria, i suoi orizzonti progettuali.
– io penso che questo congresso debba essere celebrato anticipatamente rispetto alla scadenza dell’autunno 2017, a meno che non si verifichino le condizioni per uno scioglimento delle camere in tempi che ne impediscano lo svolgimento in tempi stretti: in tal caso si svolgerebbe dopo le elezioni, alle quali il candidato del PD a Palazzo Chigi non potrebbe che essere il segretario in carica: Matteo Renzi.
– nella definizione congressuale del profilo identitario del partito non terrei in gran conto del contributo del ceto politico che ha concorso alla fine dell’esperienza di governo; è della società che ci si deve occupare, e non della smania di rivincita di dirigenti redivivi. 
Si può fare a meno di compagni di viaggio sleali; non si può invece rinunciare a parlare alla gente.
La sinistra di governo, il centro-sinistra hanno una funzione se si nutrono dello stesso cibo che mangiano le persone che vogliono rappresentare.

(7 dicembre 2016)

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